LA STORIA DEL CAMMELLO CHE PIANGE
di Byambaussuren Davaa e Luigi Falorni
LA STORIA DEL CAMMELLO CHE PIANGE
di Byambaussuren Davaa e Luigi Falorni
SCHEDA TECNICA:
Titolo originale: The story of the weeping camel Paese di produzione: Germania Anno: 2004 Audio: originale-sottotitoli in italiano Genere: documentario narrativo Durata: 87 minuti |
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La Storia del cammello che piange è un film del 2004 candidato all’Oscar nel 2005, vincitore di molti premi e riconoscimenti. I due registi sono entrambi studenti della scuola di cinema e regia di Monaco e questo film è stato argomento della tesi di laurea.
Trama
Primavera, Deserto del Gobi, Mongolia del Sud.
Una famiglia di pastori nomadi aiuta a fare nascere i cammelli del loro branco. Uno dei cammelli ha un parto difficile e doloroso ma, con l’aiuto della famiglia viene alla luce un bellissimo cammello bianco. Nonostante gli sforzi dei pastori la madre rifiuta il piccolo, negandogli il suo latte e l’amore materno. Quando tutte le speranze sembrano svanite un rituale arcaico, un’arte antica, apre la possibilità per riconnettersi alle leggi magiche della vita.
Lettura di un film in chiave sophiartistica
I film che ci interessano maggiormente sono quei film in cui viene narrata una trasformazione perché possiamo utilizzare l’arte espressa dal film e dal regista per contattare la stessa arte trasformativa presente dentro ognuno di noi. In questo senso la sophia-art (saggezza dell’arte) è un utile strumento e stimolo per indagare su noi stessi e sui meccanismi che muovono le fila della nostra esistenza.
Una chiave di lettura del film LA STORIA DEL CAMMELLO CHE PIANGE
“Le leggi della vita: la legge della risonanza”
Il film su cui lavoreremo oggi è un film sorprendente, semplice e potente.
La storia del cucciolo e della madre che lo partorisce porta in sé un messaggio universale, pieno di magia. La difficoltà di scrivere una locandina in riguardo è, in questo caso in particolare, mettere in parole ciò che prima di tutto si avverte nella pancia, nei meandri della storia personale, del proprio essere “un umano”, e ancor prima come essere vivente. Per toccare queste corde occorre ricordarsi di essere parte della Vita e dell’Universo stesso, in un’armonia con l’ambiente, con gli altri, con il tutto, per poter sentire risuonare, vibrare dentro di sé, l’essenza della Vita stessa.
Il deserto:
Siamo nel deserto del Gobi, arido scenario in cui una famiglia di nomadi vive allevando pecore e cammelli. Il deserto non è solo il luogo in cui è stato ambientato il film, ma un personaggio che ricopre un ruolo importante, insieme agli altri protagonisti. Il deserto è un luogo difficile, che mette a dura prova nelle sue estati caldissime e nella rigidità degli inverni, in cui il vento soffia a più di 150km orari. Quasi impossibile immaginarsi la vita in un ambiente del genere. Tuttavia il deserto non è solo un luogo fisico ma, in questa lettura sophiartistica del film, assume anche la caratteristica di luogo dell’anima: un luogo non-luogo, affascinante eppure così duro, rifiutante eppure ugualmente capace di accogliere la vita.
La lentezza e la legge del ritmo:
La prima parte del film è molto lenta. Questo ci permette di entrare in contatto con un ritmo diverso da quello a cui solitamente siamo abituati noi occidentali. E’ il ritmo della vita che si trasforma di continuo e di cui non abbiamo pienamente percezione, quella lentezza che ci permette di entrare in contatto con le profondità, con gli aspetti più essenziali e veri dell’esistenza, semplicemente perché è il ritmo dell’universo stesso.
La famiglia di pastori nomadi del deserto del Gobi che seguiamo nel film conosce bene questo ritmo.
Per noi occidentali, che da secoli siamo stati condizionati da assunti filosofici, religiosi, medici sulla vita e sul suo significato è più difficile stare a ritmo con le leggi naturali. Tutt’al più possiamo pensare a una sorta di “ritorno”. Mi riferisco ad esempio alla filosofia illuminista (Cartesio e il cogito ergo sum = penso dunque sono) che per secoli ha contribuito sì a dar valore all’uomo in quanto essere pensante, ma al contempo a comprometterne la capacità di “sentire”. Abituati come siamo a percepire la verità solo in termini cognitivi (una cosa è vera solo se la capisco, se è giusta, ad esempio, oppure una cosa è vera se è logica), abbiamo ridotto drasticamente la possibilità di affidarci alla nostra capacità di sentire.
Se vogliamo invece metterci in contatto con le leggi della vita, possiamo provare a pensarci in viaggio, un viaggio di ritorno verso il ritmo arcaico di cui siamo parte da tempo immemore.
La realizzazione stessa del film parte da un viaggio dalla Germania alla Mongolia, terra di origine di uno dei due registi, alla ricerca di un rito particolare da poter filmare per la tesi di laurea in cinema nella scuola di Monaco. Il caso fortuito mette i due giovani registi nella condizione di trovare esattamente quello che stavano cercando. Questo è mettersi a ritmo.
Il dolore:
Nel film il dolore fisico del parto lascia una traccia tangibile nella madre, la quale rifiuta di allattare il suo cucciolo, contravvenendo a una legge naturale. Quel dolore è una ferita aperta nella sfera affettiva dell’animale. E’ necessario entrare in quel dolore per creare nuova vita. E’ necessario attraversare quel dolore per far si che la vita si sviluppi ed è necessario, ancora, superare quel dolore per rientrare in armonia con l’ordine naturale delle cose.
Il rifiuto
Il cammello non è un essere pensante, ma è come ogni animale, biologicamente, un essere sensibile, ovvero un essere che sente attraverso i sensi.
Che cosa sente quando si scontra con il rifiuto? Che cosa sente quando è addirittura la madre che lo rifiuta?
L’esperienza del rifiuto materno è molto più consueta di quanto si creda. Il rifiuto ci mette in contatto con l’inadeguatezza, con l’impotenza di trasformare le cose, con il bisogno di sentirci protetti, amati, capiti. Questo bisogno non è una condizione legata ai primi mesi della vita o all’infanzia, ma è un bisogno che continua nell’arco della vita e si ripropone e si espande nelle altre sfere. Quante volte ci è capitato di non sentirsi capiti, accolti, amati… questo diventa inconsciamente difficoltà nelle relazioni sentimentali, si trasforma nell’incapacità di amare se stessi.
L’amore e l’arte
L’amore è un motore potente capace di trasformare gli eventi. L’ingenuità con cui i pastori guardano alla vita, quello sguardo puro rivolto all’essenza, sono vere e proprie dichiarazioni d’amore per la vita. La loro capacità d’amare si percepisce subito nel calore domestico, nei riti di gratitudine e nelle preghiere rivolte agli spiriti protettori.Per noi, che siamo in viaggio di ritorno, amare è un’arte che si apprende.
L’amore, la saggezza e l’arte insieme creano un’alchimia capace di trasformare l’impossibile in possibile.
Prato, 11/10/2015
Dott.ssa Francesca Brabanti
Psicologa, Vice Presidente
dell’Associazione Culturale Microcosmo
francesca.brabanti@yahoo.it
tel.3471271871